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GLI ANNI OTTANTA

Da Rossellini a Tornatore. Il cinema italiano dal dopoguerra ai giorni nostri.

GLI ANNI OTTANTA

cinema Rubriche

Italia

a cura di Massimo Palazzeschi
Consulenza di Fernaldo Di Giammatteo*


(intervista a Di Giammatteo del 15.6.1991)

Antonioni era già tramontato, nonostante avesse fatto “Il mistero di Oberwald”, che è interessante per la sperimentazione dell’elettronica nel cinema, ma niente di particolare.
Fellini era ormai uno che ripeteva sé stesso, ma con intelligenza: “E la nave va” è sempre un buon film; fra l’altro si vede la ripresa tecnica del muto. Ammiro la sua impareggiabile eleganza e gusto nel mettere insieme cose stravaganti. Però se dovessi cercare in questi anni dei film che mi hanno colpito più di altri dovrei fermarmi sui F.li Taviani, perché “La notte di San Lorenzo” è stato una notevole impresa, più degli altri loro film, perchè sono riusciti a far quadrare il loro stile di narrazione fiabesco con una storia di carattere realistico. Qui hanno centrato l’obiettivo, a differenza del passato dove facevano film molto cerebrali, non molto sviluppati e così via. Ma ne “La notte di San Lorenzo” sono riusciti a mettere bene a fuoco la storia che comincia con la fiaba, ovvero il racconto della madre alla bambina, che però ricorda un fatto vero: la guerra, la Resistenza in Toscana e poi si sviluppa con uno stile epico che accentua la drammaticità di alcune scene del film. 
Monicelli è un regista che ha fatto di tutto nella sua vita, ma soprattutto ha fatto bene la commedia all’italiana, oscillando sempre tra commedia e tragedia, secondo la grande tradizione. Nel 1985 gira un film per me straordinario come “Speriamo che sia femmina”. Questo è un film eccellente, perché lui riesce ad esprimere la sua vera ideologia, che è una “ideologia femminista”. Monicelli riesce a documentare quello che è il suo modo di vedere i rapporti fra i sessi e ad allacciare una totale adesione al mondo femminile contrapponendolo al mondo maschile, e lo fa con cura, scegliendo un cast di attrici e attori che sono di prim’ordine: Liv Ullman, Noiret, Blier, , ecc.. che accentuano a meraviglia il ruolo positivo ed attivo della donna ed il ruolo meschino ed egoista dell’uomo. Ecco, questo suo modo di vedere la vita esce fuori benissimo dal film ed è un grande risultato; in altri film ha seguito spesso sceneggiature scritte completamente da altri ed il suo modo di vedere si è un pò confuso. Ma poi sempre su “Speriamo che sia femmina”va segnalato la sua abilità nel dirigere un cast con cinque o sei primi attori, che è difficile far convivere; lui riesce a tenerli in pugno non con la durezza o con la prepotenza come faceva Visconti ma al contrario con la gentilezza, con il lasciarli liberi di recitare come si sentono e questo, Monicelli lo sa, scatena la competizione fra l’oro: ognuno cerca di far bene per non sfigurare sull’altro ed il film viaggia spedito.
In questi anni c’è l’esplosione di Nanni Moretti: si comincia con un film che a me non è piaciuto ma che va sottolineato, e cioè “Sogni d’oro”. Però, sia “Bianca”, sia “La messa è finita” e sia, infine, “Palombella rossa” sono film straordinari. Dei tre, io preferisco “Bianca”, perché lui riesce a costruire questa storia che ha una soluzione, ma che tu fino all’ultimo non riesci ad intravedere; sembra che ti racconti un’altra cosa, sembra che stia giocherellando, che si diverta a prendere in giro il mondo: il liceo Marilyn, i professori, i ragazzini e tante altre cose. Poi all’improvviso, scopri che dietro c’è un abisso di orrore, l’infelicità cronica che sfocia nella violenza, l’omicidio, la schedatura degli amici in base agli amori, la sofferenza del personaggio, e questo nel film è molto significativo. “La messa è finita” ideologicamente funziona abbastanza bene, ma quello che mi ha colpito di più, anche se non è piaciuto al pubblico è “Palombella rossa”. Questo film è una metafora sulla sua delusione della vita, per la quale fin da giovane si era battuto per degli ideali che ora vede frantumarsi, e Moretti la esprime molto bene con questo non contatto del protagonista con il mondo, con il rifiuto di tutto quello che lo circonda, con il suo moralismo che ora viene fuori apertamente senza nasconderlo come prima sotto le vesti dell’umorismo. Il tema centrale è quello di essersi trovato in una condizione attuale dove, nonostante l’impegno, gli sforzi, l’amicizia, non si riesce ad ottenere niente, perché il mondo si è degradato fino a tal punto che anche un partito, come quello Comunista, si sfascia, non esiste più. 
Questa è la sostanza di “Palombella rossa”, che Moretti dice con un moralismo e con una abilità linguistica che è fuori del comune. Poi va segnalato che lui è un narcisista spaventoso che gli dà una grande carica: infatti è continuamente dentro l’inquadratura, possibilmente spogliato, bello, alto, con la barba di Gesù Cristo e questo si sente nei suoi film. Anche nel film di Luchetti , “Il portaborse”, lui fa la stessa cosa: interpreta questo ministro corrotto e crudele, che sembra un dio del male, ma è sempre il centro di tutto il racconto..
Pupi Avati in questi anni si afferma e diventa un autore importante quando riesce a tirare fuori dai suoi lavori una vena sadico-funebre. Perché “Una gita scolastica”, che era pure una favoletta, aveva questo incombere di qualcosa di diverso dalla realtà, e lì era semplicemente una specie di vento che però creava un presagio funesto. E questi aspetti funesti sono arrivati dopo in “Noi tre”, la storia di Mozart giovane a Bologna, per non parlare di “Festa di laurea”, con questa finale desolato, questa festa che è passata e sono rimasti lì i poveretti, come i morti dopo la battaglia. “Regalo di Natale” è poi l’immagine feroce di una delusione, di una sconfitta e della morte inevitabile che attende gente che vive in quel modo. Pupi Avati, mano a mano, è venuto delineando con questi film il suo modo di intendere il cinema e la vita. L’ultimo suo lavoro, “Bix”, uscito da poco, mi interessa meno: rappresenta più una sua fissazione per il jazz e sull’America che è per me fuori dalla sua opera.
Di Bernardo Bertolucci e dei suoi film di questi anni dico che non mi piacciono. Per me lui è finito come autore con “Ultimo tango a Parigi”. Questi suoi ultimi film: “L’ultimo imperatore”, “Il tè nel deserto”, sono per me delle belle esercitazioni fatte da uno che è bravo, alla David Lean, quello del “Dottor Zivago”, e “Lawrence d’Arabia”, con una differenza: Lean era semplicemente uno che metteva in scena delle belle storie senza parteciparvi, si limitava alla loro realizzazione. Bertolucci no, ha l’ambizione di essere un autore mantenendo lo stile e la forma di un film alla Lean. E la commistione fra questi due aspetti funziona fino ad un certo punto. Bertolucci vuole penetrare nel profondo delle anime e tirare fuori delle verità, come ne “Il té nel deserto”, verità eterne, e per questo non puoi ricorrere ad un romanzo come quello di Paul Bowles (“Il té nel deserto” n.d.r.) per raccontare una storia esotica che oramai è lontanissima dal tempo, da tutto, perché non siamo più alla fine dell’Ottocento. Né lui riesce ad attualizzare il racconto. Sembra che voglia fare un film per sé stesso, estraneo agli altri, bello esteriormente per via della splendida fotografia di Vittorio Storaro. Ho trovato insopportabile nel film questo citazionismo cinematografico fuori moda, come quando si vedono in una scena i manifesti dei film di questo cinema di fronte al bar. Mi è sembrato tutto così voluto, forzato e poco significativo. “L’ultimo imperatore”è più riuscito perché la manipolazione della storia richiede un cervello di un creatore di immagini che sappia anche creare racconti. (1° continua)


*Fernaldo di Giammatteo. critico e storico del cinema (1922 -2005)


Di: Massimo Palazzeschi

Fonte: Massimo Palazzeschi

Protagonisti: Nella foto Pupi Avati

Pubblicato il: 19/04/2011 da Massimo Palazzeschi

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