cinema Rubriche
Italia
a cura di Massimo Palazzeschi. Consulenza di Fernaldo Di Giammatteo*
Intervista del 1991.
Di Giammatteo:
Su Liliana Cavani ho qualche ripensamento rispetto a certi giudizi un pò duri che sono stati espressi nei suoi confronti: infatti sia “Interno berlinese”, sia “Francesco”,riescono a fari capire molte cose del suo rapporto con il cinema: queste anime inquiete, queste anime in pena, sempre trasgressive, cominciano a prendere corpo e le vedi nascere in questi film. Forse non è ancora perfetto, però è il tocco di un autore di rilievo. “Francesco”, nonostante le riserve di altri critici, è un film interessante, che ti lascia qualcosa e ti fa riflettere.
Marco Ferreri è un pò come Fellini, rifà sé stesso, a volte bene, a volte male: è sarcastico, aggressivo, molte volte divertente, però non aggiunge più niente alla sua filmatografia, nemmeno con il suo ultimo “La carne”. “La casa del sorriso” qualcosa di più dice, perché la storia di questi due vecchietti è abbastanza in rilievo; sono dei personaggi diversi dal solito e qui lui usa il sarcasmo sui problemi veri e li sconvolge facendoli diventare uno scherzo. In realtà non sono né uno scherzo, né un gioco, ma li fa diventare motivo di fiaba a cominciare dal titolo, “La casa del sorriso”. Ingrid Thulin e Dado Ruspoli sono degli ottimi personaggi, proprio perché sono visti come due folletti che fanno le cose che non dovrebbero fare e Ferreri insiste nel far vedere che sono trasgressivi. Il regista riprende il vecchio discorso che ha fatto sempre sulla morte, da “La grande abbuffata”in poi, e lo fa rivivere. La forza di Ferreri sta tutta qui: nel vedere questo mondo che si sta sgretolando e nel non piangerci sopra come fanno tanti altri, tipo i giovani registi. Lui parla della morte incombente con sarcasmo, facendo cose grottesche, per non farne un dramma ogni volta che se ne parla. Ne “La carne”, l’ultimo suo film, ho visto che oltre al sarcasmo ha tirato fuori una sua vecchia caratteristica che è la cattiveria con gli attori. Perché prendere il povero Castellitto, che tutto è meno che il seduttore, l’amante, è già una cattiveria nei confronti di questo bravo attore, ma è niente nei confronti di quello fatto alla Dellera. Infatti la fa recitare con la sua voce in presa diretta, perché aveva bisogno di una donna da rappresentare cretina ed allora le fa fare se stessa neanche correggendola, limandole le sbavature, e la mette di fronte ad un attore in ascesa, valido, che viene dal teatro, che quindi fa notare ancora di più la differenza.
Poi c’è Sergio Leone. “C’era una volta in America” è un film incompiuto ed allo stesso tempo compiutissimo di un regista che ha inventato un genere che non esisteva: il western all’italiana, che ha fatto diventare importante da noi e nel resto del mondo, infilandoci dentro tutte le sue fissazioni, tutte le sue manie ed il suo modo di vedere la vita, anche perché è stato un importante costruttore di storie, un narratore epico.
Voglio dire delle cose molto favorevoli su uno che per decenni ha fatto film non importanti e a volte inutili come Carlo Lizzani, perché, ad esempio, “La casa del tappeto giallo”, film visto poco nelle sale, è un film giallo costruito con grande abilità, con Vittorio Mezzogiorno ed Erland Josephson, una storia realizzata come raramente da noi si riesce a fare e questo non è poco: Lizzani è uno che il mestiere del cinema lo conosce bene a tal punto che quest’anno è riuscito a fare “Cattiva”, una pellicola di grande acutezza e intelligenza. Ci vuole capacità per mettere insieme una storia difficile di psicoanalisi. E’ stato aiutato dalla buona sceneggiatura di Furio Scarpelli con la collaborazione di Francesca Archibugi ed ha avuto una interpretazione significativa di Giuliana De Sio. Lei è un’attrice di talento, ma in questo film è tanto brava che riesce persino a superare i difetti di pronuncia che l’affliggono e questo è una delle prove che è riuscita ad entrare in pieno nel personaggio. Lizzani, su di lei, sugli ambienti ed i personaggi che la circondano, sulle luci, sulle situazioni del film, introduce questa inquietudine continua sull’incapacità di essere se stesso. Questo aspetto viene comunicato allo spettatore ed è un risultato notevole.
Ermanno Olmi fa i suoi film: “Lunga vita alla signora” e “La leggenda del Santo Bevitore” sono dei film interessanti anche se non dicono nulla di nuovo rispetto a “L’albero degli zoccoli”.
Francesco Rosi con “Tre fratelli” ritorna alla sua vena migliore in quanto si tratta di un film di vigore narrativo. “Dimenticare Palermo” è un film sbagliato, per certi aspetti caricaturale, come il vecchio barone siciliano che vive in albergo, interpretato da Gassman, che lo esagera a tal punto da farlo diventare un personaggio teatrale, inverosimile.
Marco Bellocchio sta cercando ancora la sua vena definitiva, nonostante abbia cinquant’anni. Nessuno dei film che ha fatto in questi anni è da buttare; sono tutti film che hanno dentro qualche cosa: però Bellocchio come regista sbanda sempre, non riesce mai a mettere a fuoco compiutamente quello che sente.
Maurizio Nichetti va benissimo: è un autore che imprime simpatia ai suoi film: L’ultimo, “Volere, volare” è un film divertente e curioso.(*) 2 continua
(*)Fernaldo di Giammatteo: storico del cinema (1922-2005)
Di: Massimo Palazzeschi
Fonte: Massimo Palazzeschi
Pubblicato il: 07/06/2011 da Massimo Palazzeschi